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IL TEMPORALE

Un indolente pomeriggio su un’isola del Mediterraneo, seduta in veranda a fare test della personalità con la figlia adolescente in cerca di risposte, mentre mangio gelato al cioccolato di Modica che non dovrei mangiare e che la figlia più saggiamente di me non mangia perché dice di non aver fame - come se io ne avessi - con la compagnia dei lampi che, avvicinandosi, si trasformano in tuoni e del vicino di villetta che rutta scoordinato, a caso tra un tuono e l’altro, che se almeno andasse a ritmo quasi quasi lo si potrebbe tollerare. Una siepe ci separa, per la privacy, che però non tiene conto dei rumori. Il cielo grigio promette pioggia ma probabilmente non pioverà. I tuoni ci avvolgono e ora il vicino ridacchia con voce catarrosa, esprimendosi in una lingua indefinita, nordica. Chissà cosa capisce di questo posto, dove vengo da ormai vent’anni e che neppure io capisco davvero. Le pecore sono rientrate all’ovile e belano dietro un‘altra siepe ancora. Il limite tra villeggiatura e natura è sottile, così come lo è quello tra villeggianti e locali: una membrana che permette di vedersi, ma che non si lacera mai, gli uni di qua, gli altri di là. Io avviluppata dentro questa materia appiccicaticcia - come una placenta, come un sacchetto di plastica che galleggia in mare lurido, lacero, viscido - che fa da confine e mi trattiene nel mezzo. Ora anche la vicina ride. La immagino con i capelli biondi cenere, un sorriso malato, un boccale di birra in mano. La figlia ha finito il test e si è ritirata dentro la villetta, al riparo. Io rimango sulla veranda e quando inizia a piovere - perché alla fine piove davvero - non mi sposto lasciando che metà del mio corpo si bagni mentre lotto contro una zanzara già attiva prima del crepuscolo.

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